lunedì 19 dicembre 2016

Famiglie



Rientro dall’ospedale dove sono stato a portare l’Unzione dei Malati ad una giovane mamma, quarantenne, semicosciente, il respiro faticoso, rotto in due, segno di qualcosa di grave che si sta passando in un corpo oramai alla fine delle proprie forze. L’infermiere cura la malaria con una potente iniezione, poichè gli esami hanno dato esito positivo, ma è chiaro che c’è molto di più e peggio che la malaria. La preghiera che facciamo è affidamento a Dio nella consapevolezza che umanamente, con i mezzi a disposizione sul posto “tutto è stato fatto”, o meglio “non c’è più nulla da fare”. La preghiera è l’ultimo risvolto della speranza  e nello stesso tempo l’ultima carità che si può fare al povero malato accompagnandolo in quello che sembra davvero essere l’ultimo viaggio.

 E’ il marito che mi chiama, la donna era stata dimessa dall’ospedale qualche tempo fa non sapendo più che medicine proporle, ma a casa miracolosamente aveva ripreso forza. Un canto del cigno prima di ricadere. E’ commovente vedere il numero di persone, di familiari, di conoscenti che al capezzale del letto attendono gli avvenimenti, pregano, commentano, stanno in silenzio, fanno sentire il loro affetto la loro vicinanza. La morte fa parte della vita, è temuta ma non è qualcosa di irrimediabile e tremendo poichè quotidiana è l’esperienza della fragilità e della debolezza. L’atteggiamento psicologico del “superuomo” che non conosce sconfitte è sconosciuto nella nostra foresta. La morte che fa parte della vita è vissuta in famiglia, non è un avvenimento puramente individuale, e se una parte della famiglia se ne va gli altri, pur impoveriti, ne continuano il percorso.


Prima di rientrare passo da Simiendi, il bimbo di circa otto anni che con Morena abbiamo portato all’ospedale con una bruttissima piaga nella parte posteriore del collo e delle spalle. Erano già passati tre mesi da quando era caduto nel fuoco in seguito ad una crisi di epilessia. Fino a quel momento nessuna cura. Dio solo sa come abbia potuto resistere e sopravvivere. E’ il quarto di sei figli. La mamma non ha marito. Come si suol dire qui “anazaa mugini”: concepisce e dà alla luce i bimbi in casa, senza che ci sia un qualche papà che in seguito si prenderà cura di loro. E’ uno zio che lo ha accudito all’ospedale per un paio di giorni prima che la mamma si faccia viva... aveva gli altri più piccoli a casa a cui badare. 




Nel padiglione dell’ospedale dove sono trovo il bambino malato, lo zio e la mamma che tiene tra le braccia l’ultimo suo nato di circa un anno d’età. Mentre ascolto la loro storia si mischiano sentimenti di biasimo e di comprensione, di incredulità e di compassione. 
Quanta incoscienza, quanta povertà, economica e culturale, quante poche alternative. L’amore non manca. E’ la prima volta che li vedo tutti insieme. 

La dedizione dello zio mi ha stupito fin dall’inizio e continua a stupirmi. Il bimbo malato lentamente si sta riprendendo anche se ci vorrà ancora molto tempo. E’ una famiglia un pò strana: fratello, sorella e i sei bimbi di lei. Quei bimbi che sono il loro peso e la loro ricchezza. Difficilmente potranno essere curati quando saranno malati, più difficilmente ancora potranno andare a scuola. L’unica loro ricchezza sarà la loro famiglia.